Georges-Louis Buffon (1707-1788), noto scienziato francese, amava dire che chi scrive come parla, anche se parla benissimo, scrive male. L’italiano parlato non è l’opposto di quello scritto, ma ci sono delle differenze importanti. La lingua scritta è codificata, quella parlata lo è molto meno e si evolve rapidamente. Tuttavia, l’italiano parlato non è per forza dialettale, usare un registro informale non vuol dire abbassare il livello della lingua al linguaggio gergale o identificarlo per forza con una parlata regionale, o “popolare”, legata a persone che vengono identificate come “socialmente depresse” nelle storie che vengono raccontate. L’italiano parlato non si identifica nemmeno necessariamente con l’italiano orale, ma a differenza di quello scritto è più spontaneo, meno codificato, e normato, e sicuramente si incentra sulla chiarezza e sulla comunicazione diretta.
Questa introduzione ci serve per dire che non tutto è accettabile come “lingua parlata” o “registro formale”, alcune parole, locuzioni, termini specifici, strutture grammaticali vanno rese nella loro forma più corretta, anche se l’intenzione dell’autore è quella di rendere una lingua parlata, appunto, quindi meno codificata e rigida della lingua scritta. Se un “ma però” può risultare sbagliato nel linguaggio scritto, diventa un rafforzativo accettabile nel linguaggio parlato, così come il pleonastico “a me mi”, che molti dicono sbagliato, nel parlato è rafforzativo. Diverso è usare il “te” come pronome soggetto:
Corretto: Anna sei stata tu?
Sbagliato: Anna sei stata te?
Te è, infatti, un pronome complemento: Vengo subito da te.
Altri errori tipici di una lingua “forzatamente” colloquiale, a meno che non siano peculiarità di un personaggio, sono:
ci ho detto, che invece si scrive gli ho detto;
gli ho detto, che invece si scrive ho detto loro;
a gratis è sbagliato e basta.
In generale, da recenti statistiche risulta che gli errori più comuni riguardano ortografia, errori nella scelta delle parole in base al significato, uso dei pronomi “gli” e “le”, sovrabbondanza di pronomi e possessivi, uso sbagliato delle relative introdotte dal “che”, uso dei tempi verbali. Nel racconto al passato i tempi verbali non sono equivalenti e non possono essere usati indifferentemente. Non bisogna mai scoraggiarsi o dare per scontato di essere nel giusto smettendo di sorvegliare la scrittura, perché non è semplice utilizzare i tempi verbali nel modo corretto. Come ci spiega l’Accademia della Crusca, il distacco dai fatti a volte è addirittura psicologico: “La scelta del passato prossimo e del passato remoto non dipende dalla distanza temporale degli avvenimenti; dipende dalla collocazione che diamo a questi rispetto al momento in cui ne parliamo e dal “punto di vista” dal quale li consideriamo, cioè dall’atteggiamento con cui percepiamo il passato. Usiamo il passato prossimo per esprimere un’azione compiuta o un accadimento che “lasciano tracce” (come diceva Giacomo Devoto) nel presente. Usiamo il passato remoto per manifestare il distacco, e quindi la lontananza, di tali avvenimenti dal momento in cui ne parliamo. Dobbiamo perciò intendere remoto nel suo significato etimologico di “separato”, “staccato”, “rimosso”; e prossimo come indicante vicinanza o attualità psicologica.”
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