La retorica non è un “discorso vuoto” come spesso viene intesa, anzi, le figure retoriche sono “strumenti” che gli scrittori utilizzano per esprimere idee, trasmettere significati ed evidenziare elementi importanti. Metafore, allusioni, ironie, e via dicendo, diventano “vuoti espedienti” solo se utilizzate come riempitivi privi di significato. Alcune figure retoriche funzionano di più a livello intellettuale, altre sono più legate alla sfera delle emozioni; alcune regolano lo stile formale della scrittura, altre sono distintive della “voce” di quello scrittore.
Giardino dell’eloquenza è la definizione che il trattatista cinquecentesco Henry Peacham (1578-1644) dà alla retorica. Essa è l’arte del persuadere, e le strategie argomentative volte alla persuasione oggi dominano l’interazione sociale, economica, politica, e, più che in qualunque altro tempo, a volte fanno totalmente a meno di etica e contenuti fondati. Oggi il convincere è diventato centrale, anche a costo di modificare il sistema di valori, opinioni, significati e interpretazioni. Ma qual è l’equilibrio fra estetica e necessità di comunicare? Scrivere bene non vuol dire dire “parlare difficile”, perché tutto ciò che è stilisticamente corretto se non fa passare il messaggio è inutile, così come è inutile cercare di stupire i lettori a tutti i costi se dietro le frasi stupefacenti non ci sono contenuti. Se questo criterio guida gli scrittori nel sorvegliare il livello retorico, perché non diventi un qualcosa di puramente estetico, allora la comprensibilità del testo non verrà messa da parte e la complessità diventerà un valore narrativo.
Il livello retorico di un testo va studiato, ponderato, misurato, revisionato. Per esempio, legare le metafore a un ambito semantico, cioé di significato, distante dai temi e dai contesti della storia nel suo insieme porta inevitabilmente a un indebolimento dell’intera struttura narrativa. Immaginiamo un cavaliere medievale che inviti i suoi compagni d’arme a cambiare marcia durante una carica con lancia in resta, attingendo così a un linguaggio da pista automobilistica non proprio consono al periodo storico.
Cosa sono, dunque, le figure retoriche? Un procedimento stilistico atto a «esprimersi in maniera libera e codificata a un tempo», libera nel senso di scelta artistica volontaria, perché non è obbligatorio usarle se si vuole comunicare; codificata perché ogni figura è riconoscibile secondo un precisa struttura, nota e tramandabile. La frase di Jean Racine (1639-1699) «E celare al giorno una fiamma così nera» racconta di una passione colpevole che conduce la protagonista al desiderio di suicidio, e lo fa con quattro metafore e un ossimoro, ciò non toglie che avrebbe potuto scrivere «E tentò di uccidersi per la vergogna di amare il figliastro», però l’effetto non sarebbe stato lo stesso. Racine non usa le figure retoriche soltanto per stupire il lettore, ma per dare forza al messaggio, renderlo vigoroso.
Un esempio classico di figura retorica usata dagli scrittori è la metafora, in pratica una similitudine abbreviata , ma non per questo una banale semplificazione, tutt’altro: la sua costruzione richiede un complesso trasferimento di significato, che avviene sostituendo un termine con un altro che abbia con il primo affinità semantica:
a) La vecchiaia è la sera della vita.
b) La vecchiaia è la fine della vita così come la sera è la fine del giorno.
Il tratto semantico che vecchiaia e sera condividono è “fine”. Dunque per costruire metafore efficaci è necessario attingere ai campi semantici, conoscere a fondo il significato delle parole scelte, e creare legami che il lettore possa decodificare: se il lettore non è in grado di ricostruire il senso di una metafora questa è inutile e dannosa, così come è terribile leggere metafore stantie o ripetitive:
c) Gianni era un leone.
d) Il cuore di Anna era un martello nel petto.
Le metafore non sono soltanto espressioni linguistiche, bensì processi cognitivi: questa è la chiave. Se noi scriviamo Antonio è [basso come] un nano, difficilmente arriveremo a una metafora, piuttosto a una sineddoche che serva a condensare un esempio, più che a esprimere una similitudine; ma se scriviamo Anna è [appassionata come un] fuoco puro, in tal caso poniamo in paragone due realtà non omogenee, perché Anna, che è una persona, non può essere fuoco, sicché abbiamo due termini eterogenei e la metafora che ne deriva avvicina tra loro elementi altrimenti incompatibili. L’efficacia sta proprio nel plasmare questo legame poetico, un paragone speciale, non una semplice chiarificazione.