Qual è il tempo verbale più adatto a raccontare una storia? Quale modalità tra passato e presente, per esempio, risulta più accattivante per i lettori? In realtà la scelta è stilisticamente molto interessante, perché i tempi verbali assolvono a diverse funzioni:
– indicano la successione cronologica dei fatti;
– segnalano l’aspetto dell’azione, ci dicono cioè se si tratta di azione durativa, puntuale o compiuta;
– suggeriscono l’atteggiamento di chi racconta rispetto alla storia, atteggiamento che può rivelare una posizione di partecipazione o di distacco: se il narratore si sente più coinvolto i verbi commentativi (presente, passato prossimo e futuro) risulteranno più efficaci, ma se gli eventi sono avvertiti come distanti, allora sarà più adatto un tempo narrativo (imperfetto, passato remoto, trapassati). La domanda giusta dovrebbe dunque essere: cosa voglio comunicare? Qual è la posizione del narratore rispetto alla storia?
La maggior parte delle storie è scritta al passato, il tempo classico della narrazione, sopratutto perché è istintivamente la soluzione più adottata e naturale per raccontare degli episodi che si assumono come conclusi.
«Signor Oak», disse lei con luminosa chiarezza e buonsenso, «voi state meglio di me. Io, miracolo se possiedo un centesimo sulla terra, vivo da mia zia perché ho bisogno di essere mantenuta. […] E non vi amo affatto».
Gabriel la guardò, un poco sorpreso e molto ammirato.[Hardy, Via dalla pazza folla, 1874]
I tempi del passato hanno funzioni diverse, l’imperfetto e il trapassato prossimo sono i tempi di sfondo, il passato remoto e il trapassato remoto sono i tempi di primo piano. Inoltre: «La scelta del passato prossimo e del passato remoto non dipende dalla distanza temporale degli avvenimenti: dipende dalla collocazione che diamo a questi rispetto al momento in cui ne parliamo e dal “punto di vista” dal quale li consideriamo, cioè dall’atteggiamento con cui percepiamo il passato. Usiamo il passato prossimo per esprimere un’azione compiuta o un accadimento che “lasciano tracce” (come diceva Giacomo Devoto) nel presente. Usiamo il passato remoto per manifestare il distacco, e quindi la lontananza, di tali avvenimenti dal momento in cui ne parliamo. Dobbiamo perciò intendere remoto nel suo significato etimologico di “separato”, “staccato”, “rimosso”; e prossimo come indicante vicinanza o attualità psicologica.
Il presente è più diretto e la narrazione assume un aspetto “commentato”, di fatto, i tempi commentativi vengono usati di solito nel discorso diretto (dialogo), o quando il narratore interviene a commentare i fatti ed esprime un giudizio su di essi; o ancora quando fa delle considerazioni di carattere generale. Usato stabilmente nella narrazione, può rendere la storia più credibile e attuale, ma si perde quel senso di racconto che risiede solo nel passato.
Lo scrittore Reidar Frost vuota il bicchiere di vino, lo poggia sul tavolo della sala da pranzo e chiude gli occhi un momento per ritrovare la calma. Qualcuno degli ospiti batte le mani. Veronica è in piedi avvolta nel suo abito blu, girata verso un angolo della sala con le mani davanti alla faccia, e comincia a contare.
[Lars Kepler, Lʼuomo della sabbia, 2012]
Da Twitter
+++ È il 2013, vivo e lavoro a Londra, è il compleanno della mia ex ragazza. La chiamo, piange, mi strazia, cedo. Mi chiederà di tornare. Tornerò. Sbaglierò. C’era un tramonto bellissimo quel giorno. +++
Ho dei dubbi sull’utilizzo dei tempi. Si può avere questa libertà narrativa usando presente, passato e futuro parlando di eventi trascorsi?
La libertà narrativa ha senso se è giustificata a livello narrativo. Se quei tempi si intrecciano con fatti, eventi e situazioni che sono inserite nella trama in quel preciso tempo, allora va bene, ma se utilizziamo i tempi verbali in modo originale solo per essere originali, allora massacrare la grammatica non è giustificabile. Nella frase che usi come esempio, il cambio verbale ci sta, anzi, è interessante e la chiusura al passato sembra richiamare un evento del passato che presto scopriremo come lettori.
Ottimo!