Abbiamo più volte ribadito quanto sia facile che sorgano dubbi sulla corretta grafia delle parole, mentre si scrive. Tali dubbi possono essere risolti con l’aiuto di un buon dizionario o di una grammatica, strumenti che dovrebbero essere sempre a portata di mano quando si scrive (e soprattutto quando si revisiona). L’ortografia della lingua Italiana non è particolarmente complessa se paragonata a quella di altre lingue, eppure accenti, apostrofi, univerbazioni comportano molte difficoltà. Ed è da aggiungere che queste difficoltà di scrittura, dovute a tanta incertezza, vanno aumentando sempre di più.
Una semplificazione solo apparente
Gli errori ortografici non vanno sottovalutati o ritenuti minori rispetto a quelli di contenuto o di grammatica più profonda (come l’uso corretto dei tempi verbali) perché la presenza di questo tipo di imprecisioni sminuisce anche il valore di quanto scritto. La drastica semplificazione delle frasi nei testi di narrativa, semplificazione cui stiamo assistendo negli ultimi anni, non ha poi ridotto la presenza di errori, anzi, probabilmente li ha messi ancora più in evidenza: le frasi sono corte, i periodi sempre più elementari eppure mancano la correttezza ortografica e grammaticale, il che diviene quasi imperdonabile.
Qualche norma di utilizzo
Prima di tutto nessuno si senta al sicuro dagli errori, perché può capitare anche a scrittori esperti di sbagliare. Secondo è sempre necessario aggiornarsi sui nuovi usi di alcune forme grafiche, variazioni e nuove proposte dell’Accademia della Crusca, perché la lingua è sempre in evoluzione. Ad ogni modo, uno degli ambiti di maggiore difficoltà per gli autori sembra essere l’uso corretto di accento e apostrofo con le parole omofone (cioè con lo stesso suono), dette anche omonime. Le parole omofone sono sempre omografe (stessa grafia oltre che stesso suono); le parole solo omografe, invece, non necessariamente sono anche omofone, come per esempio àncora e ancòra, perché la variazione di accento modifica il suono.
Per esempio la preposizione di si distingue dal sostantivo di’ (giorno) grazie all’apostrofo, che dunque nel secondo caso va usato. Anche la preposizione da si distingue dalla terza persona del verbo dare, dà, grazie a un accento, ma c’è anche una terza versione, da’, che è l’imperativo, ovvero dai. Come regola generale, per orientarci nel bel mezzo di una tempesta di dubbi, possiamo dire che di norma la parola di uso più comune è raramente quella che ha bisogno di accento o apostrofo, perché per convenzione linguistica si tende alla semplificazione non alla complicazione. Le preposizioni di e da sono più frequenti delle altre forme citate. Si potrebbe portare ad esempio anche il pronome te e il nome della bevanda tè; il pronome e avverbio ne ma la congiunzione né (né io né lui). E ancora vuole sempre l’accento l’avverbio affermativo sì, mentre non lo vuole il si pronome personale e riflessivo.